sabato 31 marzo 2012

un BUon (non) compleanno a te!

Immagina di essere Alice, i capelli e gli occhi chiari già ci sono.
 Immagina di essere in un Paese con più meraviglie di questo...
Una tavola apparecchiata per il thè (alla lavanda!)...
biscotti, tramezzini
e tutte le persone che ti vogliono bene, e credimi sono tante, che ti cantano "Un buon non compleanno"...

Tieni presente che Lewis Carroll ha vissuto nell'età vittoriana... un'epoca piena di contraddizioni, tipo quella in cui noi viviamo! E proprio nell'epoca vittoriana che i fiori diventano un vero e proprio linguaggio, l'alfabeto dei sentimenti e delle sensazioni...

Ed è con i fiori che rimpiazzo le parole...così difficili da scrivere, così difficili da pronunciare anche per una piccola mercante di prosa, soprattutto in questo periodo...
Il profumo dei fiori colma il mio silenzio...

La rose parce que s'est si faible e si belle... e se penso a qualcosa di delicato e francese allo stesso tempo, mi viene in mente Antoine de Saint Exupèry e ho già voglia di venirti a trovare non appena sarai nella tua amata Parigi...



Il giglio mi fa venire in mente l'isola omonima e la campagna della Regione Toscana appena lanciata per risollevare il turismo... insomma mi viene in mente una realtà che è stata colpita dalla tragedia senza rassegnarsi, ma anzi trovando dentro di sè una forza inaspettata,  ... un po' come te...


La calla mi riporta indietro ai tempi della prima Comunione, quando forse anch'io avevo una fede e vedevo il mondo con l'ingenuità di chi non è ancora stato scottato dalla vita...E poi se penso a i cigni... mi viene in mente questo fiore...semplice, bianco, maestoso!


Il prossimo anno sarò puntuale... il prossimo anno sarò lì a tirarti le orecchie :-D

lunedì 6 febbraio 2012

Leggendo Benni conobbi la cucina emiliana. Pane e farinacei.

Molti, anzi moltissimi di noi, credono che per mangiare etnico si debba rinunciare alla forchetta, arrabattarsi alla meno peggio con due bastoncini, ingerire pesce crudo o farsi intossicare dal piccante della cucina messicana o dalle spezie protagoniste di quella indiana. Io dico che non importa cambiare Paese o continente per scoprire sapori nuovi e piatti diversi da quelli che troviamo tutti i giorni nella nostra tavola, spesso basta solo allontanarsi dalla propria Regione. Sono golosa di novità culinarie ed editoriali e spesso mi piace unire le due cose, anche se con questo non intendo dire che amo fare briciole sopra i libri che leggo o ungere le pagine di olio e condimenti vari.
Mi piace conoscere le usanze e le cucine diverse dalla mia attraverso i libri. Impossibile immergersi in un romanzo di Banana Yoshimoto o Murakami Haruki senza che il germe della curiosità verso i piatti giapponesi non si insidi nella nostra mente e nel nostro palato... Impossibile emergere dalle avventure della famiglia Malausséne di Pennac senza la benché minima idea degli ingredienti tipici della cucina araba. Allo stesso modo, se si leggono i libri di Benni, si diventa familiare con la cucina emiliana.
Gli esseri umani, per quanto diversi fra loro, sono accomunati dal bisogno di nutrirsi, tutti mangiano, ma ognuno personalizza la sua alimentazione. Così gli eroi e le eroine di Banana Yoshimoto gusteranno rumorosamente dei soba mentre quelli di Benni si metteranno il tovagliolo al collo e ci daranno dentro con il ragù alla bolognese! Libro che leggi, cucina che trovi!

Al momento sto leggendo, o meglio rileggendo per la terza e non credo ultima volta, "Saltatempo" di Stefano Benni (http://it.wikipedia.org/wiki/Saltatempo) e condivido con voi i cibi, appartenenti alla categoria "Pane e farinaci", in cui mi sono imbattuta nel corso del romanzo.

MISTOCCHINE: dolce tipico della tradizione romagnola. Impasto di farina di castagne e acqua, o anche latte in alcune ricette, profumato e aromatizzato con l’anice. Vengono cotte sulla piastra e consumate ancora calde. Sono per certi versi simili al NECCIO toscano, anche se quest'ultimo non viene aromatizzato all'anice, ma farcito di ricotta, come se fosse un cannolo!





CRESCENTINE: possono essere due cibi diversi, a seconda della città dell'Emilia Romagna in cui ci si trova. A Bologna, per crescentine, si intende ciò che a Modena viene chiamato "gnocco fritto" e in altre città "torta fritta".  Mentre in generale, per crescentina, si intende un tipo di focaccia morbido tipico del Modenese. La ricetta é molto semplice: impasto di grano duro, agente lievitante (bicarbonato o lievito), sale, latte e acqua e questo prodotto da forno é particolarmente adatto ad essere farcito con i salumi, sia quelli di Modena che non.

TIGELLA: Anche se con il passare del tempo, il termine "tigella é diventato sinonimo di "crescentina", in realtà  inizialmente indicava solo il disco rotondo su cui venivano cotte quest'ultime. In pratica un errore di vocabolario é entrato nella norma, consolidato dall'uso e adesso le "crescentine" vengono chiamate anche "tigelle".

I tre prodotti tipici che vi ho descritto, riportano ad una realtà, quella vissuta in prima persona dai nonni e dai genitori più in là con l'età. Erano anni in cui non si aveva la possibilità né economica, né concreta di andare al supermercato e trovare ogni sorta di cibo inscatolato. Le donne facevano tutto, o quasi, a mano. Certo, avevano anche il tempo e la necessità di farlo...ma questo é un altro discorso.
Immaginatevi soltanto il focolare, il crepitio della legna che arde e il calore che ne scaturisce, quel calore buono che ti entra dentro, ma pericoloso al punto di poterti bruciare. Immaginatevi una famiglia numerosa, affamata, il padre e la madre per il lavoro manuale e i ragazzi stremati dai giochi e dai compiti scolastici. Riuscite a vederli radunati intorno al focolare su cui da una parte cuociono le mistocchine e dall'altra nella tigella, una sopra l'altra, separate da qualche foglia di castagno essiccate, si dorano le crescentine.

Oppure provate con la fantasia ad andare indietro di una cinquantina di anni... state camminando per la strada...In prossimità dei crocevia, entro un riparo di fortuna dagli spifferi e dal freddo, illuminata da una flebile luce, magari quella di una candela, la venditrice di mistocchine vi propone uno dei suoi dolci. Nonostante siano stati fatti da un po', sono ancora caldi poiché la venditrice le ha conservate nel paniere di legno coperte da un canovaccio, per evitare che si disperdesse il calore.
Già mi sembra di sentire il profumo di anice che riempe questo blog :-D

Spero di aver sfatato lo stereotipo che, anche per via delle vacanze in Riviera in Emilia Romagna si mangia solo la piadina... Come potete vedere crescentine e piadina si contendono il primato ad armi pari! Per farvi un riassunto visivo: ecco qua un'immagine che non ha bisogno di didascalie.
Questa é l'Emilia Romagna:  


domenica 29 gennaio 2012

TUTTO QUELLO SARESTE FELICI DI SAPERE SULL’HAPPY HOUR: STORIA ED EVOLUZIONE DELL’APERITIVO.



Il primo aperitivo fu somministrato ad un paziente di Ippocrate. Già questo, almeno per me, é abbastanza ironico. Infatti, quello che oggi viene vietato in alcuni Paesi per combattere l’alcolismo e il binge drinking, paradossalmente, all’inizio era considerato come un medicinale in grado di curare la disappetenza.
La pratica di servire bevande alcoliche o non prima dei pasti, per solleticare le nostre papille gustative, era in epoca romana, un’usanza molto diffusa. Infatti, etimologicamente parlando, “aperitivo” deriva dal latino “aperire”, in quanto serviva per aprire lo stomaco. Pare che il detto “pancia mia fatti capanna” nacque dopo una flute di prosecco.  BAZINGA! (cit. The Big Bang Theory)
In Italia l’aperitivo, almeno secondo le mie fonti, diventa popolare alla fine del 1700, anche grazie al re Vittorio Emanuele II, testimonial ufficiale del Vermouth creato dal torinese Carpano. Si racconta che il liquore ebbe così tanto successo da diventare ospite irrinunciabile degli aperitivi ufficiali a corte e che si formavano file pazzesche di persone fuori dalla sua bottega 24 ore su 24 per sorseggiare la “aperitivosa” bevanda.
Tuttavia, l’aperitivo per noi italiani, prima che le usanze inglesi e americane attentassero per l’ennesima volta alla nostra linea, era solo liquido…poi sono arrivati gli stuzzichini e si è iniziato a parlare anche da noi di “eppiauar”. L’aggiunta del companatico ha preso sempre più una brutta piega, fino ad arrivare ad oggi, periodo in cui quando si pensa alla parola aperitivo, ci viene alla mente prima un mini panino infilzato da una bandierina sullo stecchino, poi, in un secondo tempo, un bicchiere di qualcosa.
Noi italiani abbiamo preso l’happy hour dalla cultura anglo-americana e ne abbiamo personalizzato e stravolto il concetto. Se in US e in UK l’happy hour almeno originariamente durava un’ora e si contrapponeva alle meno felici e più numerose “working hour”, da noi il lasso di tempo della contentezza è decisamente più lungo e va dal tardo pomeriggio fino alle 22/22.30. Inoltre, all’estero durante l’happy hour, che copre una fascia oraria morta per pub e bar, si offrono sconti e riduzioni speciali sul prezzo delle bevande mentre da noi avviene il contrario: gli aperitivi sono costosissimi e per tirarci su della perdita finanziaria che comporta un Martini con una misera oliva, ci mettono a disposizione, come contentino,  un piccolo (o a volte infinito) buffet. Diciamo che da noi gli happy hour si avvicinano, o addirittura coincidono con la formula “All you can eat”.


Gli aperitivi oggi si fanno un po’ ovunque , dalla metropoli al bar scrauso di periferia e con intenzioni diverse: stuzzicare l’appetito e ammazzare il tempo prima della cena (in Italia è cool cenare tardi) o sostituire (w il risparmio) la cena. Coloro che perseguono quest’ultima finalità di solito riempiono più volte il piattino di plastica a loro disposizione costruendo ad ogni viaggio verso il buffet, una sorta di grattacielo di panini, pizzette e stuzzichini vari. Il loro motto è “se non ammazza ingrassa”. La capitale del rito è la Milano da bere dove si lavora e si aperitiva senza sosta!
Nel prossimo post analizzerò le evoluzioni dell’happy hour in Italia e le peculiarità che ha assunto nello Stivale questo rito di diffusione universale. 

venerdì 27 gennaio 2012

Pesche Melba e Pavlova. Quando le donne ispirano dolcezza.

Inizio a convincermi che anche la cucina rientra nel campo delle arti. Vedendo la questione in quest'ottica, lo stereotipo del cuoco un po' ignorante, grassoccio, sempre sudato per via del calore dei fornelli e un po' goffo nei movimenti, lascia definitivamente spazio nel mio immaginario ad un'icona di gran lunga diversa. Ora come ora mi immagino un cuoco-artista, con il tocco delicato e raffinato, sensibile e capace di trasmettere se stesso e le sue emozioni attraverso il sapore e la presentazione delle pietanze. Rivaluto l'aspetto creativo e spirituale di questa professione e di coloro che la svolgono.

Ho rivisto la mia opinione sulla figura del cuoco dopo aver scoperto due curiosi aneddoti di cui sono protagonisti due famosi cuochi del passato e due star, rispettivamente del canto lirico e della danza.

Mi riferisco al famosissimo soprano Helen Porter Mitchell, in arte Nellie Melba ( in onore della sua città Melbourne) alla quale lo chef August Escoffiersuo grandissimo ammiratore, dedicò un dolce al cucchiaio a base di pesca, chiamandolo appunto PESCHE MELBA. Infatti, le pesche e i lamponi, ingredienti fondamentali della ricetta originale, erano i frutti preferiti del soprano, così come la vaniglia era il gusto di gelato che più amava. E come se questo gesto non fosse abbastanza,lo chef pensò di presentare il dessert alla Mitchell in modo davvero originale e scenografico.

Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del Lohengrin di Wagner, che avevo particolarmente apprezzato, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e ricoperto da un velo di zucchero filato. (dalle memorie di August Escoffier).

Io mi rassegno, stonata come sono non mi dedicheranno mai nulla :-(
La ricetta originale la trovate qui https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:n5Q1EcP3nYMJ:www.cucinastorica.eu/pdf/pesca-melba.pdf+pesche+melba+escoffier&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEEShXndz2GT5lqCmUQyE_cualX9DUiSz3SKtqvPBG3CXED1L3ONco7j3RNFRHAXQ7iwX-PcMJ50c6NSalYwk25xxuOx8bZL5nAaa-m0BOpOkhLHH4SxfX0Xjwhbsf526ZlPmZ6tCx&sig=AHIEtbQ5knkrZS0D3gV6tcAxdHr2wtaaLg

Vi avevo parlato di due aneddoti e non mancherò alla parola data, dopo la lirica facciamo posto alla danza. Siamo in Nuova Zelanda, i protagonisti della storia sono la ballerina russa Anna Pavlova e un cuoco, di cui non sappiamo il nome. Durante un tour della ballerina in Nuova Zelanda, venne creata in suo onore questa torta che ad oggi, uno dei più tipici dessert australiani.
Gli ingredienti sono semplici e davvero simili, se non uguali, a quelli dell' Eton Mess di cui ho già parlato in un altro post.
Ma niente da fare, anche nella danza classica sono un disastro e dovrò trovare altri meriti per avere anch'io la mia Torta della zia Lety...

Infine, mentre scrivevo mi é venuta in mente un'altro famoso prodotto da forno che prende il nome da una donna: la Luisona del Bar Sport di Stefano Benni, in onore della quale Beppe Grillo aveva proposto, sulla scia del V-day, anche il "Luisona Day"http://www.beppegrillo.it/luisona_day.php
. Ed essendo Benni uno dei, se non IL, mio autore preferito, vorrei citarvi un passo che parla della Luisona:


"Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali ormai le conoscono una per una.(...) Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: «Hanno mangiato la Luisona!». La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un'ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata.
[Stefano Benni, Bar Sport, Mondadori, 1979]

giovedì 26 gennaio 2012

Eton mess: un dolce promosso a pieni voti

Di per sé si tratta di un dolce al cucchiaio fatto di ingredienti semplici e di facile preparazione, tuttavia, il suo legame con il prestigioso college di Eton e il suo aspetto un po' caotico lo hanno reso famoso nei Paesi anglosassoni e non solo.

Gli ingredienti principali sono 3, il numero perfetto:
-meringa 
-panna montata
- fragole
Oltre ad essi servono: vaniglia, zucchero di canna, marmellata di fragole, un pizzico di sale e il bianco di 1,2,3 uova (a seconda di quante sono le persone)

E alla luce di questo, può non piacere a qualcuno? Se si escludono gli allergici o intolleranti a fragole e lattosio, questo dolce é praticamente gradito a livello universale!

La preparazione é semplice, anche perché si possono cucinare (o comprare) per tempo le meringhe e tagliare in anticipo le fragole a pezzettini, montare la panna é facile e quindi é un dolce che si presta bene a preparazioni last minute. Si aromatizza la panna montata con la vaniglia (a meno che non vi faccia schifo la vaniglia), si montano gli albumi, un pizzichino di sale, e  si fa raffreddare il tutto nel frigo. In un secondo momento si aggiungono le fragole e le meringhe a pezzetti. Non dovete essere precisi, si chiama Eton MESS, che in inglese significa "disordine",  quindi deve avere un aspetto caotico... deve ricordarvi la vostra testa scompigliata quando vi alzate da letto al mattino, per intendersi!

Ma cosa c'entrano le fragole, la panna e le meringhe con Eton? Il mistero é presto svelato perché ogni anno, in occasione della partita di cricket tra il college di Eton e quello di Winchester veniva servito questo dessert. All'inizio non c'erano le meringhe, sono state aggiunte dopo per spezzare con la loro croccantezza la morbidezza vellutata della panna e delle fragole. Inoltre, nelle prime versioni dell'Eton mess venivano usate sia le fragole che le banane.
La leggenda vuole che la scintilla per la creazione di questo semplice, ma gustoso dolce al cucchiaio, sia scattata durante un pic nic. Un cane, un labrador precisamente, avrebbe maldestramente ribaltato la pavlova (http://kuricettario.myblog.it/archive/2010/08/03/pavlova.html, un dolce con base di meringa e ricoperto di panna montata e frutta di stagione, creato in Nuova Zelanda in onore della ballerina russa Anna Pavlova) e il tutto si sarebbe mescolato a casaccio all'interno di un cestino da pic nic. I padroni di quel cestino, fregandosene dell'abc dell'igiene avrebbero mangiato ugualmente il loro dolcino, e anzi, avrebbero trovato più gustosa la versione "impiattata" dal labrador di quella originale messa per benino. Si sa, i giovani son ribelli e anticonformisti!! :-D

Tra verità e leggende resta un'unica certezza: appena arriverà la stagione delle fragole, io sarò armata di cucchiaio per gustare l'Eton Mess... E visto che siamo in tema di fragole, il tributo ai Beatles era d'obbligo...

mercoledì 25 gennaio 2012

Le verità nascoste del KAMUT: anche i cereali hanno qualcosa da nascondere.

Vi ho già aperto gli occhi sul pomodoro Pachino e ho intenzione di mettervi in guardia anche sul KAMUT, il cereale più cool del momento. Sarà per il nome un po' esotico, sarà perché siamo annoiati dalla parola grano, sarà perché sarà, ma il Kamut sta spopolando dalle mie parti. Addirittura alcune pizzerie si sono specializzate nell'impasto fatto con la farina di Kamut, cereale con molte fibre e quindi adatto alla panificazione,offrendo una margherita che costa quasi quanto l'oro!

La leggenda, o come preferisco definirla io: la trovata commerciale, del Kamut fa risalire le origini di questo cereale all'antico Egitto dei faraoni. Stando a quanto é stato divulgato finora, i semi di Kamut furono ritrovati dopo la Seconda Guerra Mondiale da un pilota dell'aviazione...e non furono trovati in un posto qualsiasi, bensì all'interno della tomba di un faraone. Il pilota fece arrivare 36 semi al padre, un piccolo agricoltore del Montana, che subito li piantò e iniziò a venderne i frutti al mercato locale con il nome di grano del re Touth".  Dopo di che il cereale cadde di nuovo nel dimenticatoio fino al 1977 quando un recipiente di grano del re Touth fu ritrovato in casa di Mack Quinn del Montana. Bob, figlio di Mack, essendo agronomo capì il grande potenziale del cereale e dopo aver fatto ricerche sulla origine lo ribattezzò KAMUT (antica parola egizia che indica il grano). In seguito il kamut divenne un marchio registrato dell'azienda Kamut International fondata da Bob Quinn.
Ovviamente é una storiella interessante, verosimile, ma ricordiamoci che, anche sul conto di uomini barbuti che guidano slitte trainate da renne e di donne che cavalcano scope volanti se ne dicono tante...

Le cose importanti sono altre, ovvero: 1) il kamut non é un cereale insolito, esotico, strano. Il Kamut è grano, una delle tante varietà di grano, con caratteristiche che la rendono molto adatta alla panificazione.
2) il Kamut é un marchio registrato di cui l'azienda Kamut International ha il monopolio: il che significa che il Khorasan, nome comune della tipologia del grano Kamut, può essere coltivato liberamente ma non può essere venduto come Kamut, nome di uso esclusivo dell'azienda fondata da Bob Quinn. Così come si può produrre bevande in tutto e per tutto uguali al Gatorade, ma a cui si deve trovare un nome commerciale alternativo (Energade, Powerade, etc...), 3) il Kamut non é un cereale sostenibile. Manco per idea. E la dimostrazione é semplice e sbrigativa: per crescere ha bisogno di climi e habitat semi aridi come quelli delle pianure del Montana, quindi vi immaginate i costi di carburante, trasporto, spedizione, imballaggio, magazzino, stoccaggio, nonché di tasse governative e di monopolio dobbiamo sostenere per averlo negli scaffali dei supermercati?? Ci credo che poi un kg di farina di Kamut arriva a toccare, e superare a volte, i 3 euro...
4) Mi rincresce ma devo sfatare anche l'ultimo mito sul Kamut: Non va bene per i celiaci, contiene glutine, e anche parecchio!

Quindi lasciate perdere il grano del re Touth, perché per averlo serve davvero un patrimonio reale e se anche i soldi non fossero un problema, resta sempre il fatto dell'impatto poco sostenibile che ha sull'ambiente...

Per ulteriori approfondimenti riporto un articolo in cui si mettono in luce i dubbi dei GAS sull'inserimento del Kamut nella gamma di prodotti acquistati http://www.terranauta.it/a709/consumo_critico/kamut_e_le_scelte_del_consumatore_tra_leggenda_marketing_e_realta.html


Tutto quello che dovreste sapere sul Pomodoro Pachino

Tanto per cominciare, un piccolo test di ingresso per vedere se in materia di pomodori siete ferrati (chi sbaglia verrà punito a forza di pappa, insalata, pizza e "pummarola ncoppa").
Quale/i immagini ritraggono il pomodoro Pachino?


 Immagino che molti di voi avranno identificato come pomodori Pachino quelli nella prima e ultima immagine... o magari solo quelli della prima o quelli dell'ultima... Sono sicura che la maggior parte, se non totalità di voi, ha scartato la seconda e terza foto...Beh avete sbagliato!! Sono tutti e 4 pomodori Pachino, 1) pomodori Pachino ciliegini, 2) pomodori Pachino costoluti, 3) pomodoro Pachino tondo liscio, 4) pomodori Pachino a grappolo. Infatti, Pachino non é il nome proprio di una varietà, ma il nome proprio di un paese in provincia di Siracusa www.comuni-italiani.it/089/014/ e il Disciplinare dei Pomodori Pachino ne identifica 4 tipologie, le stesse di cui potete vedere le foto.

Siete shockati? Non ve lo aspettavate? E il meglio deve ancora venire... il pomodoro Pachino non é nativo dell'Italia, é in un certo senso un immigrato che si é fin da subito ambientato bene... una specie di cinese arrivato a Firenze o Prato da neonato che conserva gli occhi a mandorla, ma parla con la "c" aspirata! :-D

Dario Bressanini, blogger e giornalista dell'Espresso, scrive un articolo/post sui retroscena del pomodoro Pachino. Fino agli anni 80 al supermercato si trovavano solo i pomodori tondi grossi, quelli lisci o costoluti, detti anche isalatari e i pomodorini a grappolo si trovavano solo negli orti domestici. Erano detti "pomodori da serbo" perché si appendevano e serbavano per l'inverno.

I pomodori Pachino hanno antenati israeliani: nel 1989 l'azienda sementiera biotech israeliana Hazera Genetics, introduce tramite la Comes S.p.a (oggi Cois 94 S.p.a) due varietà di pomodori: il ciliegino Naomi e il pomodoro a grappolo Rita. All'inizio la reazione verso queste due bellezze straniere é di rifiuto, ma considerando il successo odierno di queste varietà, gli italiani si sono poi follemente innamorati di Naomi e Rita!

Il successo dei semi Hazera continuerà con Lucinda, il datterino e Shiren il ciliegino e ben presto altre ditte sementiere estere inizieranno a registrare e diffondere in Italia ( i terreni del Meridione hanno le condizioni perfette per la crescita del pomodoro) i loro prodotti: Cherry Wonder, Conchita, etc..

L'origine straniera delle sementi di prodotti che consideriamo italianissimi non é una rarità, anzi, secondo un pdf di materiale didattico dell'Università di Firenze, pare che l'Italia sia debitrice delle sementi estere circa al 90%... e ora sappiate che la vostra "pommarola ncoppa" affonda radici in Medio Oriente...agghiacciante vero??

martedì 24 gennaio 2012

Le abitudini alimentari degli Americani, spunto di riflessione tratto da Big Bang Theory.

Se non conoscete e non avete mai visto la serie tv "The Big Bang theory", vi avviso che vi state precludendo una delle cose più divertenti al mondo! http://it.wikipedia.org/wiki/Big_Bang_Theory

Io sono arrivata alla quarta serie e ormai ho familiarizzato con Sheldon e la sua comitiva
e conosco bene le loro abitudini. Tutte le sere, o quasi, si riuniscono per mangiare, rigorosamente seduti sul divano o su delle sedie, ma mai a tavola e la maggior parte delle volte la cena la prendono da asporto. Non capita spesso di vedere Leonard e gli altri alle prese con i fornelli... Mi chiedevo se si trattasse dell'ennesima caricatura dello stereotipo che vuole l'americano medio ignorante in campo culinario, dipendente da fast food e catene varie e modello non certo esemplare di abitudini alimentari o fosse uno spaccato di vita reale. Credo che la verità anche qui stia nel mezzo. Facendo qualche ricerca ho avuto conferma che una grande percentuale di Americani preferisce cibi pronti o presi da asporto ad un piatto cucinato in casa... Questo per motivi di pigrizia, o comodità dipende dai punti di vista, tempo e abitudine. Inoltre, non esistendo la cucina americana come singolo filone, l'alimentazione negli Stati Uniti é un mix di cucine etniche, regionali, internazionali spesso riviste e modificate per avere un tocco di American style (basta pensare alla cucina giapponese: accanto ai "maki" tradizionali troviamo i numerosi tipi di "rolls" nati in America).

Non tutti gli Americani sono obesi, ma gli obesi sono molto più numerosi e molto più obesi rispetto all'Italia o ad altri Paesi europei.http://calorielab.com/news/2011/06/30/fattest-states-2011/ L'uso/abuso di condimenti e il consumo di bibite gassate sono SPAVENTOSI! E non parlo per sentito dire, sono stata a Washington e a NYC e vi posso assicurare che l'acqua costa più della Coca-Cola e la si trova relegata in un angolino in fondo al reparto bibite (insomma ha lo stesso trattamento che ha da noi la cedrata!). I piatti base dell'alimentazione degli americani di per sé non sono grassi, la carne e il pesce sono molto presenti nelle diete, così come le verdure. Il vero problema sono i condimenti: salsa BBQ, maionese, ketchup, dressing di tutti i tipi per l'insalata, crostacei affogati nel burro fuso....

Insomma, massimo rispetto per gli usi e costumi altrui, ma mi tocca ammettere che preferisco la cucina italiana, i piatti più leggeri conditi con un filo d'olio a crudo e consumati seduti a tavola... Lo so sono conservatrice, ragiono come se avessi più degli anni che ho... ma se é vero che siamo quel che mangiamo, io non ci tengo ad essere un hamburger del Mc Donald (e neanche di Burger King :-D)

Fate una croce sull'impasto giusto!

Molti di voi ci sono talmente abituati che non ci fanno più caso al fatto che su alcuni tipi di pane c'è un taglio a croce sulla superficie, altri quando preparano l'impasto per la pizza fanno due tagli incrociati sulle palline per puro automatismo.
Tuttavia, legati a questo gesto del taglio e al simbolo della croce ci sono secoli di storia, tradizione religiosa e studi fisici.

Intanto é interessante vedere come in tutti i Paesi sia diffusa la pratica di incidere l'impasto in superficie. La differenza é che nei Paesi cattolici si utilizza molto spesso la croce e lo si fa, oltre che per favorire la lievitazione, per il valore religioso e rappresentativo di questo simbolo.

La croce, secondo la superstizione popolare, serviva a benedire l'impasto del pane e a scacciare i demoni che avrebbero ostacolato la lievitazione (in effetti se ci pensate, la lievitazione é una sorta di magia e può essere vista, da coloro che ignorano i rudimenti di fisica e chimica, come una sorta di evento sovrannaturale). Tale superstizione é rafforzata dalla leggenda di uno dei miracoli di Santa Chiara. Infatti, si racconta che ricevuto da parte del Papa l'ordine di benedire i pani, Santa Chiara fece su di essi il segno della croce. Subito, per miracolo divino, la croce apparve ben intagliata sui pani. (il racconto intero lo trovate qui www.francescanisecolarimadonnadellarocca.it/OFSnuovo/Miracolo%20del%20pane%20FF.htm
E come accade spesso, anche in questo caso le superstizioni e le tradizioni popolari hanno fatto sì che si tramandasse nell'uso quotidiano una miglioria pratica, un trucchetto per facilitare la lievitazione.

L'efficacia dei tagli sul pane, siano essi a croce o di qualsiasi altra forma, si può spiegare dal punto di vista scientifico, ovviamente!
La superficie del panetto è esposta all’aria e pertanto durante la levitazione perde acqua per evaporazione (più rapidamente rispetto alla pasta interna) diventando più tenace rispetto al contenuto. L’effetto potrebbe essere simile a quello di una pellicola elastica, che (avendo una forma quasi sferica) causa all’interno del panetto una pressione maggiore di quella atmosferica; maggiore pressione vuol dire che la reazione chimica-biologica che produce il gas CO2 procede più lentamente (principio di Le Chatelier).
Se facciamo un taglio a croce abbastanza profondo allora non abbiamo più una pellicola sferica, ma una pellicola che può piegarsi verso l’esterno senza opporre troppa resistenza all’aumento del volume del panetto. In parole povere, i tagli sulla superficie impediscono all'impasto di gonfiarsi troppo (sul pan brioche che deve essere gonfio i tagli non vengono infatti praticati), aiutano la lievitazione aerobica in profondità e permettono di verificare a che punto é questo processo (quando la croce é quasi del tutto assorbita, significa che l'impasto ha ultimato la lievitazione).

Inoltre, dal punto di vista estetico la croce sull'impasto é proprio bella da vedere. A mio avviso, spezza la monotonia della "texture" del pane e dà nuovo stimolo all'occhio che, come ben sappiamo, vuole anch'esso la sua parte.

Tuttavia, oltre alla croce, a seconda dei tipi di pane, si fanno anche tagli orizzontali e trasversali. Di norma per i pani rotondi si usa la croce, mentre per quelli allungati si preferiscono tagli orizzontali o trasversali.

sabato 21 gennaio 2012

Irish coffee: tra storia e leggenda

Ieri sera mi siedo al pub con uno scopo ben preciso: "Niente birra. Per me un Irish coffee."
L'Irish coffee é una di quelle bevande che vanno assaporate seduti davanti a un tavolo di legno...non le puoi prendere in uno di quei locali tanto cool con l'arredamento interamente bianco laccato.... Per l'irish coffee ci vuole un tavolo grezzo, con le schegge magari! Ma questa é solo la mia, del tutto relativa, opinione...

Comunque sia ho voluto fare una ricerca più approfondita sulla bevanda e ne condivido volentieri con voi il risultato:

pare sia nato a Shannon che, da quando iniziarono le prime transvolate atlantiche, rappresenta l'aeroporto d'elezione per i collegamenti con l'America. Nei primi tempi i viaggiatori arrivavano in idrovolante e, prima di giungere a terra, erano esposti ai rigori del clima e, magari agli spruzzi dell'acqua di mare che, per quanto addolcita dall'influenza della corrente del Golfo, era sempre fredda. Il titolare del bar dell'aeroporto, tale Joe Sheridan, ideò allora una bevanda che potesse riscaldare e tonificare i suoi clienti, appena scesi dagli idrovolanti.

E si chiama "irish" coffee per due motivi:
-la nascita in terra d'Irlanda
- tra gli ingredienti troviamo whiskey irlandese

La ricetta originale, contrariamente a quello che leggiamo nei menu degli after dinner, non prevede il liquore alla crema di latte, bensì la panna.
Lo strato scuro caldo e quello freddo bianco devono rimanere ben separati in modo che si formino due strati che differiscono sia per colore che per temperatura...

La bevanda inizia a fare fortuna a San Francisco, dove viene diffusa da un giornalista premio Pulitzer, Stanton Delaplane, che dopo aver assaggiato l'irish coffee al bar di Sheridon, ne spiega la ricetta all'amico titolare del bar Buena Vista Café. Il Buena Vista Café cominciò a servire la bevanda nel 1952, vendendo 30 milioni di Irish Coffee: anche oggi ne serve circa 2000 al giorno. Nel 2008 è entrato nel Guinness dei Primati per aver realizzato il più grande Irish Coffee.

Oggi le vecchie generazioni irlandesi bevono l’Irish Coffe dopo cena, e nuove versioni vengono servite ai bevitori più avventurosi, ma la maggior quantità di Irish Coffe viene venduta ai turisti.
Ogni anno l’Irish Coffe Festival celebra questa bevanda nazionale proprio a Foynes, il piccolo paese dove tutto è cominciato.
www.foynesfestival.com/ Se siete liberi dal 1 al 3 giugno potreste anche fare un salto in Irlanda!!

Per la ricetta originale www.irishcoffeerecipe.com/classic-irish-coffee-recipe (é in inglese...ogni ricetta va letta nella sua lingua madre d'altra parte!)

Quello che molti, e io per prima prima di fare ricerche, non sanno é che esiste anche la versione estiva dell'irish coffee, nella quale invece del caffé caldo si usa quello shakerato freddo.

giovedì 19 gennaio 2012

Prove che non aiutano a demolire lo stereotipo che gli inglesi mangiano male...

E' nella mia indole il considerare la diversità come fonte di arricchimento e non guardo mai la mia cultura come detentrice di un primato di superiorità...o meglio: QUASI MAI!!

Per quanto ami il mondo anglosassone, i suoi paesaggi, il suono, anche se a volte metallico e consonantico, della sua lingua, devo ammettere che la cucina inglese é di serie B...
Mi dispiace, mi piange il cuore ad affermarlo, ma non posso negare di fronte all'evidenza!

Ho iniziato la stesura della mia tesi sull'agricoltura biologica e nel capitolo che ho tradotto oggi c'era la ricetta delle "Spicy eggplants".
Lo so che può sembrare incredibile, ma cercando di trasportare in italiano il procedimento per realizzare questo piatto "afrodisiaco", mi sono accorta che il vocabolario inglese é deficitario di parecchi termini che sono invece l'abc della cucina.

Tanto per incominciare SALTARE/SOFFRIGGERE... non hanno un verbo loro per indicare l'azione... forse perché nella loro cultura di cibi pronti, fast food e lacenaconsisteneltoglieredallascatola non si sono mai posti il problema e la briga di far saltare qualcosa in padella...
Tuttavia é così... manca il verbo "soffriggere" ( e "to jump" non va bene!!) e la soluzione trovata consiste nel prendere in prestito il termine francese "sauté".
Va da sé che non esistendo il verbo soffriggere, non esista neanche il sostantivo "SOFFRITTO"... quindi pensateci bene prima di dare una ricetta per telefono ad un inglese perché ci pensate ai costi di una chiamata all'estero in cui vi mettete a spiegare: "You have to sauté the garlic and the onion till they brown before adding the meat?" :-D

E last but not least... non esiste un'espressione idiomatica che corrisponda al nostro "fare la scarpetta"....bisogna usare la perifrasi: "to clean the dish with bread".... Non ci siamo proprio...la scarpetta é un MUST! :-D

In attesa di fare altre agghiaccianti scoperte... vi lascio con la curiosità di che sapore avranno queste Spicy Eggplants!!